martedì 30 giugno 2015

Il naufragio dell’Utopia e i dubbi di una civiltà senza salvagente




Il naufragio dell’Utopia e i dubbi di una civiltà senza salvagente.


Spesso attraverso i simboli, riusciamo a visualizzare e analizzare meglio le situazioni complesse che ci accadono o che accadono intorno a noi. Ed è per questo che voglio partire da un simbolo: il naufragio dell’Utopia.
A marzo del 1891 il piroscafo Irlandese Utopia durante una tempesta cerca in modo azzardato di entrare nel porto di Gibilterra, ma urta lo sperone di una corazzata inglese, e in pochissimi minuti si inabissa. Il piroscafo partito da Trieste dopo diverse soste in diversi porti del sud Italia avrebbe dovuto dirigersi verso l’America. A bordo c’erano 59 membri dell’equipaggio, 3 passeggeri di prima classe, e più di 800 viaggiatori di terza classe, tutti poverissimi migranti in cerca di fortuna, tutti o quasi provenienti dalle province meridionali d’Italia. I morti nel naufragio furono stimati in una cifra che oscilla tra 562 e i 576.
Tra i sopravvissuti, c’era l’allora sedicenne Salvatore Mone, nato a Piana di Caiazzo, che poi proseguirà con successo la sua migrazione verso gli Stati Uniti. Nel suo racconto del modo in cui si è salvato dal sicuro annegamento, narra come una volta avvistato una scialuppa di salvataggio carica di naufraghi vicino a lui, la raggiunga e ci si aggrappi. La reazione degli occupanti della scialuppa è feroce e spietata: cominciano a colpirlo addirittura con i remi per farlo staccare e andare verso morte certa. Solo con la forza della sua determinazione riesce a rimanere attaccato all’unica speranza di vita a tutti i costi, e minacciando anche di fare leva sulla fiancata della scialuppa e ribaltarla, è riuscito a convincere gli altri sopravvissuti ad accoglierlo a bordo.

Cosa vede oggi un giovane migrante che cerca di sbarcare a Lampedusa su dei malsani barconi, o che viene lasciato marcire su degli scogli a Marsiglia, o rinchiuso dentro delle gabbie dis-Umane, o caricato dalla polizia mentre cerca di salire su di un treno per andare in Francia?
Secondo me vede quello che vedeva Salvatore Mone più di un secolo fa a Gibilterra, vede noi che dalla scialuppa lo colpiamo con i remi sulle mani e sulla testa per tramortirlo o forse per ucciderlo.

Il racconto del giovane Salvatore Mone, mi fa venire in mente il romanzo La Strada di Cormac McCarthy, un romanzo post apocalittico, in cui un padre e un figlio attraverso un universo privo di cibo e di risorse energetiche, in cui gli umani sono l’unica specie rimasta sulla terra. Il padre attraversa questo universo in cui l’umanità sospesa è un umanità di disperati che commette le peggiori atrocità per potersi assicurare la sopravvivenza. In uno degli episodi più drammatici l’autore racconta di una comunità di “uomini” che mantiene in vita segregati degli altri uomini per poterne magiare la carne. L’uomo vuole portare il figlio a cercare un eventuale anche se apparentemente impossibile salvezza, tenendolo però lontano dalle aberrazioni delle colonie di disperati che popolano ciò che è rimasto dell’umanità.
Quando ho letto il romanzo, la cosa che più mi ha colpito, era il fatto che i comportamenti disumani nel romanzo sono perpetrati dalla maggioranza dei sopravvissuti, mentre, almeno apparentemente, gli unici che rimanevano umani sembrano essere i due protagonisti (padre e figlio).
Il paradosso filosofico che si crea, è legato al fatto che se tutta l’umanità (rimasta) si comporta in modo disumano quel comportamento diventa immediatamente percepito come il nuovo comportamento umano, quindi i nostri due protagonisti che vogliono rimanere legati ai valori del passato essendo minoranza assoluta diventano immediatamente non-umani i nuovi disUmani.


Ecco io mi domando se noi, con il noi inteso come la civiltà occidentale, non stiamo mostrando i primi segni di una degenerazione del comportamento umano. Stiamo forse diventando come i cannibali di Cormac McCarthy, disposti a rinunciare alla nostra umanità per salvare il nostro giardino da indebite intrusioni?

È un comportamento Umano? Noi siamo la maggioranza degli umani?  Stiamo diventando i nuovi dis-Umani?

martedì 7 aprile 2015

Viktor Šklovksij

"il colore dell’arte non riflette mai il colore della bandiera che sventola sulla cittadella del potere"

Viktor Šklovksij

mercoledì 18 febbraio 2015

Paolo Nori Su Vonnegut

Siamo animali fatti per danzare

giovedì 19 febbraio 2015

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Quando siete felici, fateci caso, la raccolta di discorsi di Kurt Vonnegut appena uscita per minimum fax mi ha fatto venire in mente il quinto degli otto consigli che Vonnegut dà agli aspiranti scrittori in un breve testo intitolato Come scrivere con stile (pubblicato in Benvenuta nella gabbia delle scimmie, edizioni SE, trad. di Franco Garnero), questo: «Lo stile di scrittura per voi più naturale tende a riecheggiare il linguaggio che sentivate da bambini. /…/ lo scrittore cresciuto in Irlanda è davvero fortunato, poiché l’inglese che si parla là è molto divertente e musicale. Io sono cresciuto a Indianapolis, dove il linguaggio comune sembra una sega a nastro che taglia lo stagno galvanizzato. /…/ Io stesso trovo che la mia scrittura è molto più convincente quando do l’idea di essere in tutto e per tutto una persona che viene da Indianapolis, che è ciò che sono. Che alternative ho? Quella raccomandata con grande veemenza dagli insegnanti ha senza dubbio assillato anche voi: scrivere come un inglese colto di cento e più anni fa».
In Quando siete felici, fateci caso (il titolo originale è If This Isn’t Nice, What is?), mi sembra che Vonnegut applichi questo consiglio di Vonnegut, cioè qui Vonnegut riesce a dire con una lingua piana, diretta, umile, delle cose che difficilmente si potrebbero dire altrimenti, come (la traduzione è di Martina Testa): «Siamo animali fatti per danzare». Oppure: «Fate l’amore ogni volta che potete. Vi fa bene». Oppure: «Di regole io ne conosco una sola: bisogna essere buoni, cazzo». Oppure: «Chi crede nella telecinesi, mi faccia alzare una mano». Oppure «Se ho offeso qualcuno di voi parlando male di Thomas Jefferson, cavoli vostri». O ancora: «Uno degli scopi della vita umana, chiunque sia a controllarla, è amare tutti coloro che sono a portata di amore». Oppure:«Se dovessi ricominciare da capo, sceglierei di passare di nuovo la mia infanzia all’incrocio fra la Quarantaquattresima Strada e North Illinois Street a Indianapolis, nell’Indiana. Rinascerei in uno degli ospedali della città, e sarei di nuovo il prodotto delle sue scuole pubbliche». O ancora: «Un insegnante una volta mi chiese: “Cosa fanno gli artisti?”. Io farfugliai qualcosa. “Fanno due cose”, disse lui. “Primo, riconoscono che non possono rimettere in sesto l’intero universo. Secondo, fanno sì che almeno una piccola parte sia esattamente come dovrebbe essere. Un mucchietto di argilla, un rettangolo di tela, un pezzo di carta o quello che sia”». O altrimenti: «C’è un tragico difetto nella nostra preziosa Costituzione, e non so come vi si possa rimediare. È questo: solo gli scoppiati vogliono candidarsi alla presidenza. Ed era così già alle superiori. Solo gli alunni più palesemente disturbati si proponevano per fare i rappresentanti di classe. Si potrebbero fare esaminare tutti i candidati da alcuni psichiatri. Ma chi vorrebbe mai fare lo psichiatra, se non uno scoppiato?». E: «Alcune di voi diventeranno madri. Non ve lo raccomando, ma sono cose che capitano. Se dovesse capitare a voi, consolatevi con queste parole del poeta William Ross Wallace: “La mano che dondola la culla governa il mondo”». O, ancora: «Mark Twain, alla fine di una vita di profondo valore, per la quale non aveva mai ricevuto un premio Nobel, si chiese per quale scopo vivevamo tutti quanti. Tirò fuori cinque parole che lo soddisfacevano. Soddisfano anche me. E dovrebbero soddisfare voi. “La stima dei nostri vicini”». Quando uscì il libro più celebre di Vonnegut, Mattatoio numero 5, il preside del comitato scolastico di Drake, nel North Dakota, ne bruciò delle copie nel forno della scuola. Vonnegut gli scrisse una lettera parte della quale è riprodotta nell’introduzione (di Dan Wakefield) a Quando siete felici, fateci caso. «… se lei si prendesse la briga di leggere i miei libri, – scrive Vonnegut, – di comportarsi come una persona istruita, scoprirebbe che non sono erotici, e non promuovono atteggiamenti indisciplinati di alcun tipo. Pregano i lettori di essere più gentili e più responsabili di quanto spesso sono. È vero che alcuni dei personaggi usano parole volgari. Ma è perché la gente usa parole volgari nella vita reale. A usare parole volgari sono soprattutto i soldati e gli uomini che fanno lavori pesanti, e questo lo sanno anche i bambini tenuti più al riparo dal mondo. E tutti noi sappiamo anche che certe parole in realtà non danneggiano molto i bambini. Non hanno danneggiato noi quando eravamo piccoli. Sono state le cattive azioni e le bugie a farci del male».