domenica 18 dicembre 2011

Riflessione su una fotografia

Ho ricevuto via mail, speditami da un amico, una fotografia.


Una vecchia fotografia. Di circa venticinque anni fa. La fotografia mi ritrae assieme ad un paio di amici, sotto una scultura di stile egizio, in riva ad un fiume, che sembra essere il Tamigi. Ad un osservazione più attenta mi rendo conto che la sfinge è una delle due che contornano l’Ago di Cleopatra sull’Thames Embankment a Londra. Non mi ricordo assolutamente niente del momento e della situazione in cui quella fotografia è stata scattata. Ma lei esiste, e io sono lì all’interno di quell’inquadratura, a riprova che quel momento è esistito. Ancora una volta la potenza testimoniale della capacità di credibilità della fotografia mi colpisce direttamente con la sua forza chiarificatrice. Ma questa volta è un altro aspetto a colpirmi, l’effetto sorpresa che mi ha scatenato la visione di questa immagine. Per me non esisteva come non esisteva l’istante in essa raffigurato, e la sua comparsa assieme alla piacevolezza della sua scoperta portava con sé un fortissimo sentimento di stupore. E una domanda: sarà mai in grado il mondo della fotografia nell’epoca digitale ad offrire ai nativi digitali o anche a noi dei momenti di sincero stupore come quello provocato da questa riscoperta? Esistono dei cassetti segreti dentro i quali un immagine digitale può rimanere “segregata” per così tanto tempo? Apparentemente, o almeno in linea teorica sembrerebbe di sì, in realtà, però, a ben pensarci le nuove abitudini di utilizzo e fruizione di immagini digitali rendono quasi impossibile la scomparsa (non voluta) di un immagine. Troppa la facilità di scambio, di condivisione, di fruizione, troppi i dispositivi di moltiplicazione dell’immagine stessa, sia che essi siano dispositivi hardware (telefoni, palmari, tablet, portatili) sia che siano software (email, social network, archivi on line). Troppa anche la facilità di un incontro accidentale, con l’immagine eventualmente nascosta. Molto superiore è la possibilità di rimanere nascosto, di un negativo non stampato rimasto negli anni gelosamente custodito all’interno del suo blister acetato, all’interno di un busta insieme a tutti i negativi degli anni ’80 dentro una scatola da scarpe. Solo la comparsa di scanner o service di scansione per vecchi negativi, insieme al desiderio di rivangare il passato di “fotografi amatoriali”, mettono a rischio il tranquillo riposo di quelle vecchie immagini che per decenni non hanno rischiato alcun pericolo di intrusione.

L’emozione che mi ha provocato la visione di questa “meravigliosamente normale fotografia”, è dovuta dalla sua non possibilità, per me e per la mia memoria essa non esisteva e invece è apparsa, e questo mi ha provocato stupore.


Sapremo ancora stupirci?


martedì 26 luglio 2011

Gobbi come i Pirenei


“Gobbi come i Pirenei” Otello Marcacci

“Mi rividi giovane, con una promessa di vita spavalda di fronte. Gli amici con cui passavo le giornate d’estate a dirci che saremmo stati diversi. Che ce l’avremmo fatta. Invece, ho dovuto imparare ad accettare la mia dimensione d’ombra. Ero lontano anni luce da quanto credevo mi fosse dovuto. Ed ero pieno di lividi, ferite. Pugnalato da pensieri che non se ne volevano andare. Ma non volevo più nascondermi nel buio della mia crepa.”
“Gobbi come i Pirenei” (pag. 103)

L’autore di questo bellissimo romanzo d’esordio, ci presenta il protagonista Eugenio Bollini, come un mediocre perdente, è questa probabilmente la più grande menzogna del libro. In realtà Eugenio è un eroe fin nel midollo, il modo stesso in cui è stato costruito il personaggio soffre un po’ di quel difetto di cui sembrano soffrire tanti eroi letterari recenti (dal commissario Montalbano all’avvocato Guerrieri) tanto per citarne due dei più famosi, e cioè un aurea di santità, costruita dall’autore in modo da rendere il suo personaggio ineccepibile sicuramente, ma anche poco reale ed autentico. Ma a parte ciò Il romanzo è godibilissimo, divertente e commovente, senza cadere nei toni da melodramma, ma anzi tenendo sempre alto il livello di riflessione filosofica, con leggerezza e profondità. Bollini è un ciclista professionista a fine carriera, con un matrimonio finito male alle spalle, molti rimpianti e poche prospettive. Ma dal suo passato ritorna una vecchia promessa fatta al padre, uomo di profonda fede anarchica, in punto di morte. La possibilità di rendere onore a questa promessa, diventerà per Eugenio motivo non solo di riscatto, ma anche il modo per dare vita a un coinvolgente serie di vicissitudini personali ed affettive dai risvolti comici e toccanti, che lo trasformeranno in un vero e proprio “Eroe” degli ultimi, anzi degli eterni secondi.
Riscatto possibile esclusivamente per Eugenio, purtroppo, nella realtà le occasioni di riscatto sembrano non presentarsi con tanta facilità.

“Forse è vero che il denaro non compera la felicità ma, ti permette di scegliere la tua forma di tristezza preferita”.
“Gobbi come i Pirenei” (pag. 50)

sabato 25 giugno 2011



“le cose non sono le cose” di Paolo Nori

“Allora comincio a dire, nel bel mezzo della campagna ticinese A me della repubblica italiana non me ne frega un cazzo. Della democrazia parlamentare italiana ne faccio volentieri a meno. A me la camera e il senato mi stanno sui maroni. Il presidente della repubblica mi fa le seghe. Non mi piace neanche il papa, a me. Io la sacra sindone ci sputo sopra. Poi torno in macchina, Cha Giovanna mi chiede Ma cosa dicevi? Dicevo due o tre cose, le dico, che a dirle in Italia ti saltano addosso e ti portano dentro. Qui invece si possono dire. Infatti non c’è successo niente, le dico, siamo ancora cittadini liberi a tutti gli effetti. Così andiamo alla mostra, bella mostra, poi torniamo in Italia col nostro segreto. E adesso con queste leggi internazionali probabilmente queste cose si potranno dire anche in Italia. Oppure non si potranno dire nemmeno in Svizzera. Dipende come si mettono d’accordo i politici”.
“Le cose non sono le cose” (pag. 125-126)

Parlare di Learco Ferrari, il personaggio partorito dalla fantasia e dalla penna di Paolo Nori, nonostante la distanza tra autore e personaggio, probabilmente è anche un po’ come parlare di Nori stesso. Infatti nel romanzo dove Nori fa esordire il suo eroe scomodo, ci sono molti dei temi cari all’autore. C’è il linguaggio bizzarro e parlato, specchio di un mondo vissuto, combattuto e assaporato, ma non idealizzato, c’è Danijl Charms, c’è il gusto per una letteratura strampalata che ama il divertimento, il gioco di parola, ma mai fine a se stesso, sempre utile ad una riflessione che va oltre la superfice delle cose, attraverso l’etimologia fa riflettere il lettore sui significati veri delle parole, e delle modalità comunicative che utilizziamo tutti i giorni. C’è un assoluto gusto per una sorta di realismo visionario, e Learco è un eroe perfetto per enfatizzare questa ricerca. Learco Ferrari, è uno scrittore/trombettista in attesa di pubblicazione del suo romanzo “Gli ultimi giri di Learco Ferrari”, ma è anche lo scrittore di racconti spassosissimi, di biografie inventate e irriverenti di personaggi famosi, di racconti surreali dal punto di vista animale, ma anche e soprattutto, di strepitose lettere di risposta al sistema, quelle lettere che nessuno di noi si prende la briga di scrivere, ma che tutti vorremmo scrivere. Learco è uno di noi, ma è meglio di noi, abita un mondo libero dagli “happy hour” e dal “trendy”, il nostro mondo di tutti i giorni, un mondo con i problemi e le piccole preoccupazioni, non i grandi drammi da romanzo, e lo fa con leggerezza e un acume profondissimo. Learco fa convivere lo stupore del fanciullo per le cose, con la genialità compassata del filosofo. Learco ci riscatta, ci riscatta dalle piccole angherie quotidiane, dai meccanismi arrugginiti della vita contemporanea, Learco risponde, alza la testa, e lo fa grande senso dell’umorismo. Un romanzo divertente come non mi capitava da tempo di leggere.



Adolfo De Carolis


giovedì 16 giugno 2011

vita sentimentale di un camionista



Vita sentimentale di un camionista
di Alicia Gimenez-Bartlett

“Era questo che facevano gli uomini di classe, ordinare un whisky alla reception e parlare al telefono con una bella donna, senza preoccupazioni. Avrebbe bevuto da solo, avrebbe acceso la radio, e avrebbe centellinato il suo whisky finché non gli fosse venuto sonno. Così facevano quelli che sapevano vivere”.
“vita sentimentale di un camionista” (pag. 221)

Il romanzo racconta la vita sentimentale di Rafael, un camionista spagnolo, che ama il proprio lavoro e che lo percepisce come mezzo di riscatto e di libertà rispetto ad un destino predestinato di mediocrità. Rafael è un uomo sposato e padre di due bambine, e i numerosi spostamenti, accentuati anche dalla sua totale disponibilità e dedizione totale al lavoro, lo allontanano gradualmente dalla vita quotidiana ed affettiva della sua famiglia. SI sposa molto giovane, a causa di una improvvisa gravidanza, con una ragazza del suo stesso basso livello sociale, e dopo pochissimo tempo l’amore viene sostituito dall’abitudine e l’abbruttimento provocati dalla necessità e dalla quotidianità. Vede una possibilità di riscatto sociale nella professione di camionista, un mestiere che fatto con piena disponibilità, sacrificando spessissimo anche i propri fine settimana, gli garantisce una nuova indipendenza economica, un nuovo tenore di vita per lui e la sua famiglia, ma allo stesso tempo lo allontana dalla vita affettiva familiare, e gli dona quello che lui percepisce come una sua nuova totale libertà. Tutto il romanzo è a mio parere permeato da questa “questione sociale”, del resto dichiarato abbastanza palesemente dall’autrice nella sua prefazione all'ultima edizione del romanzo, dove ci suggerisce di leggerlo, come si guarderebbe un film di Ken Loach. Ma e anche un romanzo in cui si affronta la questione dei generi, infatti secondo me lo si può leggere come lo scorrere di esistenze parallele che hanno due andamenti diametralmente opposti, quella di Rafael sembra avere una parabola in continua ascesa ma che rapidamente precipita, e quella della moglie Mercedes, che attraverso un andamento molto più umile e solido avrà dei risvolti che assumono connotati di assoluto riscatto. Rafael è convinto di avere il controllo assoluto della propria vita, soprattutto sentimentale che gestisce in modo assolutamente promiscuo alternando fidanzate a prostitute più o meno occasionali. Nel romanzo questi rapporti affettivi funzionano però come simbolo e rappresentazione di rapporti di potere in cui Rafael mantiene sempre il ruolo dominante, e questa caratteristica aumenta fino a raggiungere un vero e proprio abuso di potere e di soprusi, quando Rafael incomincia a percepire che tutto gli sta sfuggendo di mano. Il romanzo gli riserva infatti un destino di solitudine e della totale perdita di tutti gli affetti, in una esistenza meschina e arida, mentre alla moglie Mercedes verrà data la possibilità di ricominciare una nuova vita attraverso il riscatto personale e professionale. Mi ha molto interessato il valore simbolico del personaggio di Rafael, nel senso che il suo agire è sempre mirato ad una sorta di riscatto personale rispetto alla condizione di povertà, ma il modo in cui esercita questo suo tentativo di scalata sociale si dipinge di caratteristiche emulative, non spontanee.
Il suo è un egoismo profondo, un vero e proprio individualismo dell’anima.



sabato 4 giugno 2011

The tree of life

The tree of life di Terrence Malick
Esperienza cinematografica, chiamarla semplicemente cinema è, comunque la si veda riduttivo. Il modo migliore di fruire questa esperienza, è secondo me, di approcciarsi a questo film con una predisposizione di animo aperta a qualcosa di nuovo, di inaspettato, di sorprendente, che esula da ciò a cui siamo abituati. Un approccio più convenzionale porterebbe con molta probabilità ad una grande delusione. Uno dei meriti del film, è di fare saltare tutti gli schemi narrativi convenzionali, e lascia che la percezione dello spettatore sia scandita da emozioni piuttosto che da una precisa scansione temporale. Questo film si vede con l'anima. Vengono stimolati stati d’animo e sensazioni, profonde, arcaiche, addirittura rimosse, e questo accade in un modo delicatissimo, incomprensibilmente intimo. L’immaginario che viene evocato è quello dell’onirico, non del sogno idealizzato, piuttosto di quei sogni pesanti e agitati degli afosi pomeriggi estivi, quando immagini di rara bellezza vengono intramezzate da stati di angoscia che travalicano lo stato di incoscienza. Questa a mio parere è la cifra stilistica del film, ma su un piano più analitico Malick cerca l’evocazione emozionale, staccandosi però dal piano soggettivo, e andando a cercare gli “universali”, è sostanzialmente alla ricerca di un senso di armonia nel caso/caos assoluto dell’esistenza. Ce lo suggerisce attraverso una lunga sequenza di immagini di altissima spettacolarità, che tra le altre cose dimostrano ancora una volta (come se ce ne fosse bisogno) la completezza della visione su schermo cinematografico, Malick usa in modo sublime ogni centimetro utile del fotogramma/tela, realizzando dei veri e propri affreschi che si proiettano direttamente nella anima dallo spettatore. Il resto è la ricerca di un armonia nelle angosce della vita, attraverso la rappresentazione di tutta una gamma di sensazioni, che vanno dalla bellezza e la quiete innocente dell’infanzia, le difficoltà e le contrapposizioni dell’adolescenza, il disincanto e il dolore dell’età adulta, i sensi di colpa che a volte avvelenano e condizionano un’intera esistenza. Il finale ci suggerisce attraverso immagini raffinate ed evocatrici, di grande suggestione, che se si persegue un percorso interiore che ci avvicina alle nostre esperienze vissute, è possibile giungere attraverso anche il perdono (degli altri e forse anche di noi stessi) ad una armonica e riparatrice riconciliazione con il proprio passato.



ASCESA