martedì 11 dicembre 2012

L’enfasi emozionale ai tempi delle C90




In questi giorni mi è capitato in diverse occasioni di riascoltare musica del Led Zeppelin. Non avevo mai smesso, ma in questa occasione l’ho fatto in modo più strutturato. E la sorpresa c’è stata. La loro musica è veramente straordinaria, con gli anni ho affinato i gusti, ascoltato tantissimi generi, appassionato a molte tendenze e nuove sonorità, ma quella degli "zeppelin è davvero bella musica.

La premessa era per dire che questi ascolti mi hanno fatto ricordare, quando da ragazzino incominciavo ad ascoltare la musica rock. Quando avevo quattordici quindici anni io e i miei amici ascoltavamo la musica con le audiocassette registrate da i nostri amici più fortunati che avevano già un giradischi o un “impianto stereofonico” e/o un fratello maggiore che comperava i dischi. Ma in particolare mi è tornato alla memoria un episodio specifico. L’episodio a cui faccio riferimento è del 1979 concerto dei Led Zeppelin al festival di Knebworth. No, ovviamente non potevo esserci, ma lo ricordo benissimo a oltre trenta anni di distanza. L’esperienza che ho avuto io di quel concerto, è stata quella raccontata dall’inviato della rivista musicale di riferimento a quell’epoca “Ciao 2001”.  

Riflettendo su questa cosa mi rendo conto di quanto possa sembrare strano ricordarsi di una cosa così minima e coì lontana nel tempo, ma lo stupore aumenta quando mi rendo conto che addirittura ricordo a memoria brani di quell’articolo. Ovviamente non posso provare l’esattezza dei miei ricordi, ma dentro di me ne sono certo. Ricordo che l’estensore del testo raccontava con queste esatte parole: -“e mentre si abbassano le luci sul palco, Jimmy imbraccia la gibson a doppio manico, si illuminano migliaia di piccole luci tra il pubblico, iniziano gli arpeggi di una delle più belle ballate rock mai scritte”-  e ancora – “l’assolo finale di Page è cosi intenso e perfetto che sembra quasi che stesse parlando con Dio”-.

Ora la cosa più sorprendente di questo mio ricordo, che ovviamente si riferisce al racconto dell’esecuzione live di “Starway to heaven”, è che io a quel tempo quel pezzo ancora non lo conoscevo, e quelle parole, “una delle più belle ballate rock mai scritte”, mi facevano bruciare di curiosità e allo stesso tempo di ignoranza. Mentre leggevo quell’articolo io possedevo solamente una C90 con inciso su un lato il Led zeppelin I e sull’altro il Led Zeppelin II, e la mia curiosità non sarebbe stata soddisfatta in breve tempo. Ci sarebbero probabilmente voluti giorni, se non settimane.


Oggi mi viene da pensare che l’importanza e l’insolita persistenza di quei ricordi siano dovuti proprio da quel desiderio e da quell’attesa. Oggi, leggere di una cosa che non si conosce, comporta semplicemente una immediata ricerca su you tube perché qualsiasi curiosità venga soddisfatta immediatamente. L’impressione che mi porta con me questo mio ricordo è la difficoltà e il desiderio, rendessero quelle esperienze un po’ più memorabili.






giovedì 15 novembre 2012

Albe Steiner e il declino dell'impero culturale dei post-comunisti



In questi giorni si è consumato un orrendo delitto. E' stato definitivamente uccisa la superiorità culturale della cultura antifascista italiana. E questo delitto si è palesato con l'ultima caduta nel cattivo gusto, il fotoSmontaggio dedicato a i 5 candidati alle primarie del centrosinistra.
Ho scelto due immagini per sintetizzare quello che idealmente è il punto più alto della comunicazione visiva della tradizione comunista italiana, due capolavori di Albe Steiner.



E poi l'immagine tristemente nota in questi giorni, il fotomontaggio squinternato realizzato da i creativi-arrangioni responsabili della comunicazione del PD. 

Potrei tranquillamente fermarmi qui, chi ha un minimo di senso estetico o un briciolo di sale in zucca, capirebbe dalle immagini, che si è consumato un abominio estetico, culturale, semantico di dimensioni epocali. Ma purtroppo sembra non essere così, sono circondato da persone che sembrano non rendersi conto dei significati di questa decadenza. A parte il mondo della rete, e soprattutto twitter, che ha giustamente stigmatizzato, soprattutto deridendo i creativi, alla maggior parte è sembrata una cosa normale. 
Quello che a mio parere invece rappresentano queste due tipologie di comunicazione visiva, è una visione contrapposta della comunicazione politica/sociale.
Con Albe Steiner, c'era l'idea dei grandi intellettuali di tutte le discipline, che appoggiando l'ideale/partito, utilizzavano la loro arte, come guide per innalzare maieuticamente, partito e seguaci ad un livello più alto, ad una maggiore consapevolezza, in questo caso anche estetica. C'era l'dea che il meglio andasse ricercato per rendere la società migliore attraverso il miglioramento dell'individuo. 
Con il fotosmontaggio di questi giorni, siamo all'opposto il messaggio/partito, non si eleva, non guida, ma asseconda i pruriti più beceri del gusto nazional-popolare. Alla ricerca di consenso, consenso, consenso, fine a se stesso, perdendo la consapevolezza che una volta raggiunto quel consenso, ricercato per imporre la propria visione alternativa a quella degli avversari politici, lo si raggiungere avendo però assimilato le loro modalità, facendo venire così a mancare i presupposti per questa diversità. Qualcuno obietterà che la diversità ricercata è soprattutto politica, ma quando c'è affinità culturale c'è affinità anche  politica. E lo dimostrano tutti i tentativi di politici di tutti gli schieramenti di apparire diversi gli uni dagli altri.
Qualcuno potrebbe anche derubricare lo sfortunato fotosmontaggio ad un banale incidente di percorso, un errore di qualche inesperto neolaureato in scienze della comunicazione. Personalmente ci vedo un disegno, c'è continuità tra quell'e(o)rrore e le strategie di comunicazione del nuovo centro sinistra. Ma soprattutto c'è un abisso tra il rigore formale e ideologico di Steiner, e questo sconclusionato messaggio di stampo fumettistico cinematografico. 


Parole tra le note


l'officina di Babbo Natale


Carpi gioca


A prova di terremoto



aspettando Halloween


Halloween c'è



domenica 29 aprile 2012

Relazioni


Una delle cose di cui un fotografo "nativo digitale" difficilmente farà esperienza, è la relazione tra negativo/positivo. Un'altra cosa che ancora più difficilmente incontrerà sarà la tradizione della fotografia off-camera, o più semplicemente senza macchina fotografica. Questo ovviamente fatto salvo gli studenti di belle arti ai quali queste pratiche verranno fatte sperimentare per una corretta conoscenza di alcuni percorsi creativi del passato. Ebbene in questo post è mostrato un esempio di immagine fotografiche che contiene entrambe queste caratteristiche. L'immagine a sinistra è stata realizzata esponendo con un normale ingranditore analogico della carta fotografica tradizionale a colori poi sviluppata nei normali bagni chimici (Ra4) della fotografia tradizionale di qualche anno fa. L'esposizione è avvenuta utilizzando come negativo il vetrino che si vede a destra nell'immagine e che qui mostro in un dettaglio ingrandito.


Si nota che il vetrino è stato dipinto con dei pigmenti, e che sono questi pigmenti che hanno creato In positivo l'immagine "astratta" che si vede nell'immagine fotografica. 
Mi incuriosisce vedere che anche nella cultura del randomizzato computerizzato, il tocco del intervento umano fa assumere anche a immagini che potrebbero sembrare auto-generate, un che di irripetibile di non riproducibile.


domenica 19 febbraio 2012

My first picture.


Questa è la prima immagine fotografica che ho scattato con qualche velleità di ricerca artistica. Era circa il 1986 e se non ricordo male è stata scattata a Oxford, durante una visita in quella città.
E' un soggetto strano, avulso da quelli che sarebbero poi stati i miei interessi fotografici, ma allo stesso tempo contiene anche quell'aria metafisica in cui la figura umana ha sempre un ruolo secondario, da comprimario, tipico di tutta la fotografia che ho fatto dopo. Per questo motivo la trovo così familiare, e quando mi capita di rivederla, la sento "mia" più di tante altre immagini che avrei realizzato con una maggiore coscienza compositiva, rappresenta probabilmente il mio modo di "vedere" più istintivo, meno mediato da sovrastrutture mentali e culturali. è onesta!

mercoledì 11 gennaio 2012

DELLA FOTOGRAFIA non stampata (dichiarazione d’intenti?)



DELLA FOTOGRAFIA non stampata (dichiarazione d’intenti?)

Oggi le immagini fotografiche nascono e spesso muoiono senza finire su di un qualsivoglia supporto materico. Sul piano più strettamente contenutistico sono convinto che non esista alcuna differenza tra fotografia digitale e quella analogica. Ho sempre sostenuto fin da quando inizialmente mi sono occupato di fotografia che l’importante era l’idea, il mezzo è semplicemente un mezzo, le evoluzioni-rivoluzioni tecniche non cambiano la sostanza di quello che un autore vuole comunicare.
Esistono però a mio parere degli aspetti culturali e comportamentali che di sicuro cambiano le modalità di fruizione delle immagini fotografiche e che di conseguenza modificano in modo sostanziale la cultura e la sensibilità estetica accumulata in oltre un secolo di storia della fotografia.
Mi riferisco alla scomparsa nelle abitudini quotidiane di quasi tutti i fruitori di immagini dell’oggetto “stampa fotografica”.
Un aspetto della fotografia digitale che mi incuriosisce e che mi fa interrogare rispetto ad alcuni aspetti conseguenti ad alcune abitudini di fruizione di immagini fotografiche.
Mi riferisco proprio all’abitudine ormai diffusissima di fruire immagini fotografiche esclusivamente su schermi digitali. Mi è capitato di vedere rilanciate (dovrei dire “postate”) su vari social network, alcune immagini di un concorso fotografico dedicato “alla nostra città” completamente organizzato su web. I commenti delle persone che postavano le immagini erano tutti (ovviamente, dal momento che le immagini venivano “condivise” perché giudicate positivamente) entusiastici. Premesso che ho sempre e comunque giudicato con molta supponenza i concorsi fotografici di vario genere, questa volta, in più mi ha colpito il fatto che la possibilità di visionare le immagini fotografiche era solo attraverso un monitor. Non bisogna essere degli esperti per capire che la visione attraverso un monitor, modifica sostanzialmente la qualità di un immagine rispetto la visione su di un supporto non trasparente e non retroilluminato. La cosa mi ha incuriosito, ripeto io non sono un fondamentalista passatista, preferisco ancora leggere un libro cartaceo rispetto ad un e-book, ma se non fosse possibile fare altrimenti non mi farei troppi problemi a passare ad un supporto digitale.
Ma in questo caso mi sono chiesto quante di quelle immagini, così suggestive per tanti miei concittadini, avrebbero mantenuto il loro fascino e la loro qualità oggettiva anche stampate su carta, e quante avrebbero mantenuto la stessa brillantezza tonale, e/o più in generale la loro bellezza.
Bisognerebbe aprire qui un’altra parentesi enorme rispetto ad un interrogativo che mi viene spontaneo, - e cioè se non è comunque certo che tutta una cultura del “vedere” legata alla stampa fine art, una cultura che si affinata per oltre un secolo, e si è nutrita di validi artigiani che hanno fatto della ricerca della stampa perfetta una ragione di vita, attraverso la ricerca di materiali, tecniche, sfumature e tonalità - non sia a rischio. E se si, se non sia lo spreco di una risorsa utilissima?
Decenni di cura e di attenzione al dettaglio, di ricerca del contrasto in equilibrio perfetto per mantenere leggibilità, la scelta della tonalità di colore perfetta che hanno caratterizzato la ricerca di moltissimi autori, non saranno più utili a nessuno? Nella cultura visiva dei nativi digitali queste “sensibilità” saranno inutili, cancellate dall’attenzione allo schermo sempre più brillante?
Il concetto stesso di contrasto viene sostanzialmente eluso dalla visione a monitor, in quanto, nella stampa fine art in bianco e nero è sempre stato il fulcro di una battaglia combattuta contro i limiti dei materiali disponibili.
E ancora nella fotografia d’autore a colori la ricerca della giusta tonalità e densità di un immagine stampata è stato l’obbiettivo di ricerca di stampatori artigiani e di autori come Ghirri e Barbieri (solo per citarne due di casa nostra), oggi immagino la totale babele di tarature colore e profili personalizzati di diversi dispositivi digitali (monitor, smart phone e tablet), e penso che i loro sforzi saranno stati del tutto inutili, se consideriamo che i loro lavori verranno visti per la maggior parte di volte con colori tonalità e densità completamente diverse da quelle che loro stessi avevano fortemente ricercato.
Per altro, secondo me, le stesse considerazioni sono applicabili anche alla pittura e all’arte fruita su internet in generale.
Forse non è così importante? Siamo di nuovo davanti alla solita disputa tra forma e contenuto?
Ma se non era importante, perché per decenni ce ne siamo occupati.
Forse è stato importante nella misura in cui si è dimostrato di potere raggiungere vette di virtuosismo altissimo per poi lasciare strada a modi di visione meno attenti e maniacali?
A mio parere una sana e attenta cultura del guardare è sempre positiva ed auspicabile, e oggi io vedo molta approssimazione e fretta nel consumare qualsiasi esperienza visiva, non c’è attenzione per la qualità e nessuna cultura del colore e della luce, tutte cose indispensabili per una completa e corretta visione di prodotti artistici.
Spero che i nuovi mezzi di fruizione, riescano in futuro a conciliare, la loro praticità con una maggiore attenzione alla qualità dell’esperienza.
Della fotografia mi hanno sempre interessato alcune delle sue caratteristiche più tecniche. Quelle qualità specifiche che la differenziavano da tutte le immagini prodotte in precedenza. Mi riferisco al contrasto, la qualità tonale, ma soprattutto alla nitidezza. Non la nitidezza esasperata di certe tecniche di laboratorio. Sono del parere che un’immagine non debba mai essere più nitida di quanto l’occhio possa percepire, piuttosto la nitidezza tipica della fotografia istantanea, che è già implicitamente più nitida di qualsiasi altra immagine.
Queste sensazioni si uniscono ai ricordi delle vecchie stampe in bianco e nero su cartoncini di spessore notevole e dalle superfici imperfette, che rimandano immediatamente ad un’altra epoca, lontana dalle sensazioni patinate dell’era dei nativi digitali.
Ed è forse per questo che oggi sento il bisogno in un momento in cui nella mia vita di tutti i giorni è scomparsa la stampa fine art, di ritornare a produrre oggetti, materia.
La mia ricerca in questo momento va nella direzione di ricercare della stampe che ricordino l’atmosfera delle vecchie emulsioni albuminiche tipiche della fotografia pre-pellicola.
Sul piano contenutistico, rimango legato alla forma racconto, io in fondo rimango uno scrittore mancato, e un grande lettore, quindi trovo naturale che nelle mie immagini si manifesti il desiderio implicito, di suggerire un percorso narrativo. Ecco quindi che dove è necessario, ricorro a sequenze di immagini. A questa struttura narrativa, l’utilizzo di questa forma di stampa a emulsione spalmata, aggiunge a mio parere una patina di tempo, non è come potrebbe sembrare una semplice ricerca di un simil pittorialismo, piuttosto una sorta di contrasto tra l’attualità dei soggetti e la storicizzazione della tecnica di stampa.