Il naufragio dell’Utopia e i dubbi di una civiltà senza salvagente.
Spesso attraverso i simboli, riusciamo a
visualizzare e analizzare meglio le situazioni complesse che ci accadono o che
accadono intorno a noi. Ed è per questo che voglio partire da un simbolo: il
naufragio dell’Utopia.
A marzo del 1891 il piroscafo Irlandese Utopia
durante una tempesta cerca in modo azzardato di entrare nel porto di
Gibilterra, ma urta lo sperone di una corazzata inglese, e in pochissimi minuti
si inabissa. Il piroscafo partito da Trieste dopo diverse soste in diversi
porti del sud Italia avrebbe dovuto dirigersi verso l’America. A bordo c’erano
59 membri dell’equipaggio, 3 passeggeri di prima classe, e più di 800 viaggiatori
di terza classe, tutti poverissimi migranti in cerca di fortuna, tutti o quasi
provenienti dalle province meridionali d’Italia. I morti nel naufragio furono
stimati in una cifra che oscilla tra 562 e i 576.
Tra i sopravvissuti, c’era l’allora sedicenne Salvatore
Mone, nato a Piana di Caiazzo, che poi proseguirà con successo la sua migrazione
verso gli Stati Uniti. Nel suo racconto del modo in cui si è salvato dal sicuro
annegamento, narra come una volta avvistato una scialuppa di salvataggio carica
di naufraghi vicino a lui, la raggiunga e ci si aggrappi. La reazione degli
occupanti della scialuppa è feroce e spietata: cominciano a colpirlo
addirittura con i remi per farlo staccare e andare verso morte certa. Solo con
la forza della sua determinazione riesce a rimanere attaccato all’unica
speranza di vita a tutti i costi, e minacciando anche di fare leva sulla fiancata
della scialuppa e ribaltarla, è riuscito a convincere gli altri sopravvissuti
ad accoglierlo a bordo.
Cosa vede oggi un giovane migrante che cerca di
sbarcare a Lampedusa su dei malsani barconi, o che viene lasciato marcire su
degli scogli a Marsiglia, o rinchiuso dentro delle gabbie dis-Umane, o caricato
dalla polizia mentre cerca di salire su di un treno per andare in Francia?
Secondo me vede quello che vedeva Salvatore Mone
più di un secolo fa a Gibilterra, vede noi che dalla scialuppa lo colpiamo con
i remi sulle mani e sulla testa per tramortirlo o forse per ucciderlo.
Il racconto del giovane Salvatore Mone, mi fa venire
in mente il romanzo La Strada di
Cormac McCarthy, un romanzo post apocalittico, in cui un padre e un figlio attraverso
un universo privo di cibo e di risorse energetiche, in cui gli umani sono l’unica
specie rimasta sulla terra. Il padre attraversa questo universo in cui
l’umanità sospesa è un umanità di disperati che commette le peggiori atrocità
per potersi assicurare la sopravvivenza. In uno degli episodi più drammatici
l’autore racconta di una comunità di “uomini” che mantiene in vita segregati
degli altri uomini per poterne magiare la carne. L’uomo vuole portare il figlio
a cercare un eventuale anche se apparentemente impossibile salvezza, tenendolo
però lontano dalle aberrazioni delle colonie di disperati che popolano ciò che
è rimasto dell’umanità.
Quando ho letto il romanzo, la cosa che più mi ha
colpito, era il fatto che i comportamenti disumani nel romanzo sono perpetrati
dalla maggioranza dei sopravvissuti, mentre, almeno apparentemente, gli unici
che rimanevano umani sembrano essere i due protagonisti (padre e figlio).
Il paradosso filosofico che si crea, è legato al
fatto che se tutta l’umanità (rimasta) si comporta in modo disumano quel
comportamento diventa immediatamente percepito come il nuovo comportamento
umano, quindi i nostri due protagonisti che vogliono rimanere legati ai valori
del passato essendo minoranza assoluta diventano immediatamente non-umani i
nuovi disUmani.
Ecco io mi domando se noi, con il noi inteso come
la civiltà occidentale, non stiamo mostrando i primi segni di una degenerazione
del comportamento umano. Stiamo forse diventando come i cannibali di Cormac
McCarthy, disposti a rinunciare alla nostra umanità per salvare il nostro
giardino da indebite intrusioni?
È un comportamento Umano? Noi siamo la
maggioranza degli umani? Stiamo
diventando i nuovi dis-Umani?